Neurofibromatosi: il ruolo della famiglia del paziente
La famiglia è un elemento determinante nell’elaborazione della diagnosi da parte del paziente. Quanto più il nucleo famigliare riuscirà a raggiungere un livello di accettazione della condizione del malato, tanto più quest’ultimo avrà le armi per gestire e fronteggiare le sue difficoltà quotidiane. Ne ha parlato la Professoressa Daniela Pia Rosaria Chieffo, Psicoterapeuta presso il Policlinico Gemelli e Docente presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, in occasione del Congresso “Neurofibromatosi di Tipo1: Dalla diagnosi alla terapia, aggiornamenti su una patologia rara ma non troppo”.
“Quando un bambino nasce con Neurofibromatosi, è l’intera famiglia ad ammalarsi. I genitori, allarmati, guardano il figlio concentrandosi su quelle parti del corpo in cui la malattia si manifesta visibilmente. Ci sono famiglie dotate di una forza straordinaria, che mostrano una grande capacità di adattamento alla diagnosi, a volte anche attraverso un processo terapeutico. Elaborando l’accaduto, riescono a vedere il proprio figlio nella sua interezza e con tutte le sue sfaccettature di essere umano. Quando invece il bambino sente che i riflettori sono puntati solo su una parte del suo corpo (per esempio su una spalla dove ci sono le macchie caffellatte), succederà che a scuola, o durante l’attività sportiva, percepirà dagli altri che l’unica zona del corpo che appartiene al mondo è quella dove c’è l’espressione cutanea” dice Daniela Chieffo. Se l’adolescente con Neurofibromatosi è stato abituato a pensare che gli altri notano solo una specifica parte del suo corpo, finirà per alienare tutto il resto. Di conseguenza, il lavoro che deve essere svolto dal nucleo familiare è quello di dire: “tu non sei solo questa parte, tu sei anche tutto il resto”.
Secondo la psicoterapeuta, anche lo sport può rappresentare un valido supporto. “Lo sport aiuta da un punto di vista sensorio e motorio. Attiva una serie di organi di senso che aiutano a rendere compatto il corpo, che si muove nello spazio. Più il corpo ha la possibilità di muoversi, più la parte in cui la malattia si manifesta viene dimenticata, perché tutto il resto del corpo compensa la parte carente” aggiunge Chieffo.
Non tutte le famiglie, però, sono disponibili a inserire i figli in un contesto sportivo, dove le relazioni si amplificano e dove i ragazzi sono esposti al rapporto con l’altro. “Abbiamo tante famiglie che purtroppo vivono con timore questa opportunità, perché viviamo in un mondo dominato dallo stigma della diversità. Anche quando parlo con i bambini con Neurofibromatosi, mi accorgo che ci sono delle classi formate e pronte a gestire determinate situazioni e altre che non lo sono. È in questi altri contesti, che i bambini con Neurofibromatosi vivono una condizione di isolamento. Il lavoro va fatto prima di tutto sulla famiglia, perché è inserita in una società in cui può incontrare un collettivo che la sostiene, rendendo invisibile la NF. Ma si possono incontrare anche quelle reti sociali che demonizzano il problema. È lì che si crea una condizione di vero e proprio isolamento. Il bambino e il ragazzo con patologie di questo tipo sono altamente sensibili e immagazzinano tutto ciò che arriva dall’esterno, amplificandolo a dismisura”.
Alla luce di queste dinamiche, è lecito chiedersi quale debba essere la presa in carico di una famiglia con patologia rara. Di sicuro, la risposta non è nella eccessiva medicalizzazione del paziente. “Un conto è far curare il paziente, fare dei controlli che sono necessari. Ma è molto importante anche far appartenere il proprio figlio al mondo. In quest’ottica sono d’aiuto quelle che noi chiamiamo le medicine complementari: la palestra, il teatro, l’equitazione. Ma non parliamo di Ippoterapia e nemmeno Teatro-terapia, come vorrebbero fare alcuni genitori! Il ragazzo deve fare teatro nella scuola, nella parrocchia, in un contesto che non sia medicalizzato. Purtroppo, si tende a medicalizzare anche le attività ricreative. Ma gli hobby si devono svolgere in un contesto ordinario”.
Un altro beneficio per i pazienti deriva, oggi, dalla medicina narrativa: il racconto del vissuto del paziente. Chieffo spiega: “Lavoriamo molto con i giovani adulti, che vivono con disagio il momento di transizione dall’età adolescenziale a quella matura”. Anche in questo contesto, il genitore tende a essere molto protettivo e ad anticipare gli eventi sfavorevoli che potrebbero manifestarsi per via della patologia. “Il ragazzo si ritrova così senza strumenti idonei per sostenere questo momento così delicato. Si troverà ad essere eccessivamente appoggiato da una famiglia che, volendolo proteggere ad ogni costo, gli sottrarrà anche un’opportunità di crescita. È come continuare a tenere in braccio un bambino che sa camminare da solo. Ma tenere in braccio un bambino che sa già camminare gli infonde l’idea di non saperlo fare bene e trasmette insicurezza. Le famiglie dovrebbero accettare la possibilità che i figli cadano perché solo cadendo e inciampando si impara a muoversi da soli”
Valentina Maria Salvo